Daniel Rothbart e la memoria collettiva
Pedrini, Enrico, “Daniel Rothbart: Lab Gallery, New York e Galerie Depardieu, Nice”, Segno, Anno XXXII, No. 208, Maggio/Giugno 2006.
La memoria nell’opera di Daniel Rothbart non è ripiegamento e risorsa intimistica e autobiografica: per l’artista il lavoro sulla memoria del reale finisce per essere desiderio di affondare le mani in quello che la realtà deposita come sedimento di identità e di cultura. L’arte per Rothbart non si risolve in uno statuto e neppure in una forma, ma diviene operatività di una pratica artistica che si sostituisce alla rappresentazione e alla semplice appropriazione delle realtà e della natura. L’arte è la realtà e la realtà si presenta come una contraddizione condivisa (memoria collettiva). Per queste ragioni mi piace registrare l’opera di questo artista americano come appartenente ad un’area molto sviluppata anche in Europa, che ho definito nel 1993 ‘Utopia del Possibile’ e che oggi chiamo ‘possibilismo’.
L’arte del possibilismo è un’arte in costante divenire e si presenta come occasione di far specchiare la realtà, ma anche le conoscenze del “tutto” (a volte la quotidianità e la normalità) nell’operazione progettata dall’artista. Gli operatori che rientrano in questa linea non traggono diretta ispirazione dal reale: essi ne manipolano le conoscenze, così come la percezione, dandogli sempre e costantemente un luogo, un contesto nuovo e rinnovato: la possibilità dell’arte. Caratteristica di questa tematica è quella di proporre una correzione, un’evoluzione possibile dei concetti di realtà e di natura come risorsa di effettività e di produzione per l’arte. Daniel si trova quindi all’interno di questa problematica che è quella di impegnarsi fino in fondo in una continua ed ossessiva volontà di arrivare a qualche esperienza non ancora esplorata. Il suo tentativo è quello ottenere un’attivazione delle possibilità della conoscenza stessa, per giungere ad una totale sostituzione della realtà con l’arte stessa. I suoi interessi non si fermano alla semplice indagine del linguaggio, ma spaziano nelle varie interazioni possibili che il sistema dell’arte può offrire al contesto culturale odierno.
Studioso quale egli è dei sistemi culturali e degli ambiti con cui l’arte interagisce, Rothbart si è impegnato a percorrere nuove vie, quali quelle inerenti ad una nuova revisione dei fondamenti culturali su cui si è mossa l’Arte Americana del dopoguerra, affermandone la forte peculiarità e differenza rispetto all’Europa.
Attraverso una nuova formalizzazione dell’identità americana nella sua specificità multirazziale e multidisciplinare, Rothbart afferma la necessità di affrontare, da un punto di vista totalmente inedito, la complessità del contesto artistico del Nord America, facendo affiorare al proprio interno valenze simboliche inesplorate quali quelle religiose, sociali, storiche e culturali. Per tale ragione egli evidenzia l’idea del sacro, la cabala, la mistica ebraica; le quali sono entrate a pieno diritto nell’inconscio collettivo di quel contesto, etc. Nel libro pubblicato in Italia nel 1996 dal titolo : “La Metafisica Ebraica come uno dei Fondamenti dell’Arte Americana” Rothbart rintraccia le influenze del Giudaismo e della Metafisica Ebraica sullo sviluppo dell’arte americana, a partire dall’Espressionismo Astratto per finire con l’Arte Concettuale degli anni ’60. Egli suggerisce che le affinità riscontrate fra gli artisti, i critici ed i collezionisti di questa cultura e la nuova arte astratta, siano state in qualche modo condizionate dal secondo comandamento del Decalogo, che proibisce la creazione di immagini idolatre. Rothbart sviluppa in questo libro i temi, le immagini e i simboli del misticismo Ebraico, o ‘cabala’, che appaiono direttamente o indirettamente nel contesto dell’arte americana. Questo saggio ci fa anche capire il perché dell’affinità di molti collezionisti di questa cultura verso i linguaggi dell’arte cubista, futurista e sopratutto dadaista e le ragioni della strepitosa accoglienza della grande mostra dell’Armory Show, che si presentava ricca di tematiche lontane dalla rappresentazione figurativa. Infatti la metafisica ebraica riscopriva nell’arte moderna la giustificazione della propria iconoclastia, aderendo con passione alle idee delle avanguardie storiche legate ai concetti di spazio e di tempo einsteiniani. L’opera di Rothbart, non solo quella saggistica ma anche quella operativa ed artistica, apre così un fronte paradigmatico, dove la concettualità esce dall’autoreferenza “dell’arte per l’arte”, per diventare motore culturale capace di far affiorare nuove potenzialità e funzioni per l’arte stessa: il mito diviene nel suo fare “utopia”, in grado di ridar forza e fondamento ad una riconsiderazione del sacro come deposito interattivo capace di formalizzare i codici e le vie dei contesti culturali.
Per tale ragione il mondo della cabala diviene esplicitamente un fondamento centrale della sua simbologia artistica, la quale finisce per essere visualizzata come mitologia ideologica di un retroterra autonomo, punto di risoluzione di una matrice storica che ha accompagnato il formarsi della nuova arte in America. Affiora nell’opera di Rothbart la cultura della memoria non razionale ed irreale del mondo dei miti, e dei simboli, siano questi religiosi o laici, i quali si visualizzano come elementi di sedimentazione storica della conoscenza e del vissuto. Il suo lavoro rimane invece estraneo all’altra cultura contemporanea, cioé a quella legata al “continuum”, all’irreversibilità dello sviluppo scientifico nella sua sfrenata velocizzazione dell’informazione e della comunicazione. “Semiotic Street”, un termine inventato da Daniel Rothbart, diviene il palcoscenico sul quale avvengono gli scambi simbolici degli avvenimenti sociali e culturali, il luogo dove si accumulano le valenze segniche dei comportamenti collettivi nelle loro aspirazioni emotive e spirituali.
La strada diventa pertanto il campo della sua indagine, in quanto luogo collettivo dove si sedimentano i segni della vita vissuta e si accumulano le esperienze di relazione ed i rapporti sociali fra gli individui.
Rothbart, sviluppando sempre più la relazionabilità fra le cose e gli individui come fondamento dell’esperienza umana, lavora successivamente su altri miti laici che fanno parte attiva della vita culturale, quali il Cinema e l’Arte e attualmente il Gioco d’Azzardo, in quanto componenti allegoriche che animano lo spettacolo della vita. Essi diventano, nell’immaginario sociale, elementi operativi ed emblematici in grado di creare un ambito semeiotico articolato di identità culturali e comportamenti. Da anni, questo artista americano porta con sè, nel corso di viaggi in vari paesi del mondo, una serie di 20 ciotole metalliche di diverse dimensioni. Quando egli individua un luogo che attira la sua attenzione, Daniel dispone in esso le ciotole e documenta l’azione attraverso fotografie. Gli oggetti, grazie all’intervento di fattori esterni e non previsti, vengono riempiti di significati transitori e aprono a differenti significazioni e spostamenti inattesi di senso.
Questo carattere di transitorietà e incertezza, di nomadismo e sradicamento geografici e semantici, costituisce l’elemento centrale del progetto di Daniel Rothbart.
La sua arte diventa sopratutto “operatività di una pratica artistica” che si sostituisce alla rappresentazione e alla semplice appropriazione delle realtà e della natura. Infatti in molte occasioni egli ama provocare una vera performance, sia con le persone che egli invita, che col pubblico che spontaneamente vi partecipa. Egli intitola questa performance “Meditazione/Mediazione”. Questa azione viene guidata dall’artista stesso, il quale filma con una videocamera i vari interventi, sia delle persone da lui precedentemente invitate, che del pubblico che ama partecipare. Il dispositivo che genera l’azione è una grande ciotola di alluminio con all’interno un grande battacchio : elementi costanti presenti nella scena delle sue perfomance. I due oggetti forniti dall’artista e la presenza della videocamera diventano quindi la componente obbligatoria di ogni prestazione, ma forniscono al tempo stesso l’occasione di mettere in libertà ed in cortocircuito la creatività dei singoli partecipanti. In tale dispostivo i termini Meditazione/Mediazione entrano in dialettica tra loro in quanto i due termini sono messi a confronto e in evidenza reciproca. La “meditazione” è infatti l’opposto del concetto di “mediazione” o pacificazione e il significato di quest’ultima definizione caratterizza la precedente: la “meditazione” avviene per mezzo della pacificazione con sé stessi e con la “mediazione” fra corpo e anima.
“Meditation/Mediation” indaga i rapporti tra oggetto e contesto e tra identità differenti, cioé l’artista, l’opera, il pubblico, lasciando imprevista e ogni volta da ridefinire la fisionomia del progetto complessivo.